domenica 15 luglio 2007

Jean-Luc Godard

È uno degli esponenti più importanti della Nouvelle Vague. La sua carriera è contraddistinta da una grande prolificità, ma soprattutto per le grandi innovazioni linguistiche apportate al mezzo cinematografico.


Nei primi anni cinquanta si distingue per le sue radicali critiche cinematografiche su riviste come Arts e Cahiers du cinéma. Dopo aver girato alcuni cortometraggi tra il 1954 e il 1959, Godard esordisce nel lungometraggio con un film che diviene immediatamente il vessillo della nouvelle vague francese: "Fino all'ultimo respiro" (1959).



All'interno della sua prima opera sono già presenti quelle "trasgressioni" ai modelli narrativi tradizionali che la nouvelle vague utilizzerà per distanziarsi dal cosiddetto "cinema de papà": montaggio sconnesso, attori che si rivolgono direttamente al pubblico, sguardi in macchina. Evidente risulta anche la cinefilia di Godard, che cita ossessivamente i film americani di genere degli anni 50.

Nel corso degli anni sessanta, Godard rivolge la propria attenzione ai contenuti erotici dell'immagine contemporanea: manifesti di attori, pubblicità, fumetti, riviste patinate. In quest'ottica nascono film come "Agente Lemmy Caution, missione Alphaville", "Il bandito delle ore undici", "Due o tre cose che so di lei".

A partire dal 1966 Godard sposa definitivamente le teorie marxiste: il cinema diviene il luogo in cui mettere in atto una severa critica della civiltà dei consumi e della mercificazione dei rapporti umani, ma anche in cui si possa riflettere sullo stesso statuto dell'immagine come portatrice "naturale" di un'ideologia. Il problema della prassi diviene una costante della fase "politica" di Godard, nei film "La cinese" e "Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica".

Dopo aver esaminato la possibilità di mettere in pratica un cinema realmente rivoluzionario
Godard fonda nel 1969 con altri cineasti il Gruppo Dziga Vertov, rifiutando il ruolo di autore nella convinzione che esso sottintenda un'ideologia autoritaria e gerarchica.



Nello stesso anno dirige "Lotte in Italia", un film per la televisione italiana che si interroga sui rapporti tra film, rappresentazione e ideologia attraverso il racconto di una ragazza borghese che milita in un gruppo extraparlamentare pur rimanendo legata all'ideologia della sua classe d'origine.

Nel 1972 realizza "Crepa padrone, tutto va bene", un'indagine sullo stato degli intellettuali nella stagione del riflusso post-sessantottesco.

Si ritira in seguito a "Grenoble", dove lavora per alcuni anni ai laboratori di Sonimage sperimentando tecniche cinematografiche a basso costo (super 8, videoregistratori, ecc).


Nouvelle vague et Les Cahiers du cinéma

Il termine Nouvelle Vague apparve per la prima volta sul settimanale francese L'Express il 3 ottobre 1957, in un articolo a firma Françoise Giroud, e verrà ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla rivista Cinéma 58.

Con questa espressione si fa riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1959 ed in particolare a quelli presentati al festival di Cannes di quell'anno.

Alla fine degli anni '50 la Francia vive una profonda crisi politica, contraddistinta dai sussulti della guerra fredda e dai contrasti della guerra d'Algeria; il cinema francese tradizionale del tempo assunse una connotazione quasi documentaristica nel testimoniare questa crisi interna, i film diventarono mezzi attraverso i quali rifondare una sorta di morale nazionale, i cui dialoghi e personaggi erano spesso frutto di idealizzazione.
Proprio la tendenza idealistica e moralizzante facevano di questo cinema qualcosa di totalmente distaccato dalla realtà quotidiana delle strade francesi. Fuori dalle finestre c’era una nuova generazione che stava cambiando, che parlava, amava, lavorava, faceva politica in modo diverso ed inconsueto. Una nuova generazione che esigeva un cinema in grado di rispecchiare fedelmente questo nuovo modo di vivere. Così una nuova gioventù, designata dai giornali come “Nouvelle Vague” si ritrova in sincronia con una nuova idea di cinema denominata a sua volta Nouvelle Vague.

La Nouvelle Vague è il primo movimento cinematografico a testimoniare in tempo reale, l’immediatezza del divenire, la realtà in cui esso stesso prende vita. I film che ne fanno parte sono girati con mezzi di fortuna, nelle strade, in appartamenti, ma proprio per la loro singolarità, hanno la sincerità di un diario intimo di una generazione nuova, disinvolta, inquieta. Una sincerità nata dal fatto che gli stessi registi che si sono riconosciuti in questo movimento, tutti poco più che ventenni, fanno anche loro parte di quella nuova generazione, di quel nuovo modo di pensare, di leggere, di vivere il cinema che fu chiamato Nouvelle Vague.

I primi registi a riconoscersi nel movimento sono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Eric Rohmer, un gruppo di amici con alle spalle migliaia di ore passate al cinema, la conoscenza profonda di centinaia di film, la stesura di decine di articoli, e l’articolazione di centinaia di dibattiti alle porte della Cinémathèque Française. Proprio la Cinémathèque Française fu una tappa fondamentale per la formazione di questi giovani cinefili; fondata nel 1934 da Henri Langlois e Georges Franju, la Cinémathèque era un luogo dove venivano proiettati quei “film maledetti”, secondo la definizione di Jean Cocteau, che per il fatto di disprezzare ogni regola, di essere “uno sgambetto al dogma”, erano diventati letteralmente invisibili.

Si trattava per lo più di film di grandi cineasti europei allora largamente incompresi, Jean Renoir, Roberto Rossellini, Jacques Becker, e di registi americani del dopoguerra, Alfred Hitchcock e Howard Hawks su tutti.


Per i giovani cinefili della Nouvelle Vague l’apprendistato naturale per approdare alla regia era recensire film degli altri come se ci si accingesse a girare i propri, fare della critica non solo una disquisizione orale tra amici, ma un vero e proprio mestiere giornalistico che trovò la sua locazione ideale nei Cahiers du Cinéma, la più autorevole rivista cinematografica francese fino agli anni '60, che raccolse progressivamente trai suoi collaboratori tutti i principali autori della Nouvelle Vague. Cahiers du Cinéma era un vero e proprio manifesto del movimento, ogni testo ed ogni recensione al suo interno costituiscono un programma e una definizione di un cinema prossimo venturo.

Lo scopo cinematografico della Nouvelle Vague era catturare "lo splendore del vero", come disse Jean-Luc Godard nel periodo di critico ai "Cahiers du Cinéma". A tale scopo nella realizzazione delle pellicole veniva eliminato ogni sorta di artificio che potesse compromettere la realtà: : niente proiettori, niente costose attrezzature, niente complesse scenografie; i film vengono girati alla luce naturale del giorno, per strada o negli appartamenti degli stessi registi, con attori poco noti, se non addirittura amici del regista, e le riprese vengono effettuate con una telecamera a mano, accompagnata da una troupe tecnica essenziale costituita per lo più da conoscenti. In questo avvicinarsi sempre maggiormente alla realtà, i giovani registi furono avvantaggiati anche dai progressi tecnologici: in particolare dall'avvento del Nagra, un registratore portatile, quello della videocamera 16mm, leggera e silenziosa. Questa rottura tra riprese in studio e riprese in esterni è illustrata soprattutto in "Effetto notte" di François Truffaut (1973): in una doppia finzione cinematografica, il film ci mostra la realizzazione di un altro film, evidenziando le finzioni tecniche tipiche del cinema classico (scene invernali girate in piena estate, o scene notturne girate, con il famoso "effetto notte" appunto, in pieno giorno); Ferrand, il regista (interpretato dallo stesso Truffaut), ammette che questo film sarà senza dubbio l'ultimo girato in questo modo: una sorta di testamento del "vecchio" cinema e manifesto della Nouvelle Vague.

Il costo delle pellicole era a dir poco irrisorio, per cui ogni regista era capace di auto-finanziare la sua opera, invece di affidarsi alle grandi società di distribuzione, sempre restie nel dare fiducia ad autori che non avevano affrontato un lungo periodo di apprendistato come assistenti sui set di registi internazionalmente noti.

martedì 10 luglio 2007

Giuseppe De Santis



Si dedica con grande passione alla critica cinematografica, frequentando il gruppo della rivista “Cinema” assieme a giovani del valore di Antonioni, Lizzani, Puccini.


Sceneggiatore ed aiuto regista di Visconti per “Ossessione”, contribuisce alla realizzazione del documentario “Giorni di gloria” (1945) ed esordisce nel lungometraggio con “Caccia tragica” (1947), ch’è un autentico manifesto della sua poetica.


Muovendosi secondo la “logica di un cinema di intervento politico diretto e immediato sulla realtà nazionale”, egli cala la lezione dei sovietici (in testa, Pudovkin e Donskoj) dentro lo scenario dell’universo contadino padano devastato dalla guerra, con esiti di sorprendente efficacia.

Il successivo “Riso amaro” (1949) precisa vieppiù i contorni d’un cinema senza eguali in Italia: geniale opera che ibrida - a partire da certe intuizioni gramsciane - l’estetica del fumetto coi dettami del neorealismo, esso è una sorta di western ambientato nel vercellese in tutto degno degli affreschi epici statunitensi, un capolavoro che resiste a meraviglia all’usura del tempo.

Il successivo “Non c’è pace tra gli ulivi” (1950) segna il passaggio ad una messinscena di sapore brechtiano, che tuttavia non depriva questo dramma di pastori ciociari della propria carica emotiva.

“Roma ore 11” (1952), la pellicola sua maggiormente debitrice della lezione neorealista, offre - prendendo le mosse da un tragico fatto di cronaca, il crollo di una scala dove si accalcava un gran numero di disoccupate - una ricchissima galleria di personaggi femminili d’ogni ceto sociale, resa con impareggiabile sensibilità ed autentico slancio ideale.

Il mutar del cilma culturale costringerà pian piano al silenzio uno dei nostri più dotati cineasti: delle cose sue seguenti meritano, ancora, menzione il dolente ritratto di donna di “Un marito per Anna Zaccheo” (1953), il robusto film d’azione “Uomini e lupi” (1956) e l’ambizioso “Italiani brava gente” (1964), acre rappresentazione della disfatta nostrana nella campagna di Russia.

domenica 8 luglio 2007

Roberto Rossellini


Interrotti gli studi dopo la licenza liceale, intraprende svariate attività: incomincia ad interessarsi di cinema prima come scenotecnico, poi come montatore ed infine come sceneggiatore e regista di documentari, esperienza che lo porta ad “aderire” alla realtà.

Tra i titoli, commissionati dall’Istituto Luce, troviamo "Daphne"(1936), "Prélude à l'après-midi d'un faune" (1936) o "Fantasia sottomarina" (1939). L’etica e l’estetica di Rossellini incominciano a prendere forma con il suo primo film con attori non professionisti: "La nave bianca" (1941), primo di una trilogia sul tema della guerra. "Un pilota ritorna" e "L'uomo dalla croce" sono film di guerra, che in realtà documentano l’orrore e la tragedia che la guerra produce: il cinema è quindi strumento di scuotimento delle coscienze.


La volontà di perseguire un ideale “didattico” del film si incarnerà in modo magistrale in "Roma città aperta" (1945), manifesto personificato di ciò che si chiamerà Neorealismo. Capolavoro di Rossellini e opera tra le più importanti della cinematografia mondiale, con questo film il lavoro artistico viene caratterizzato da elementi costanti come: l'anonimato - gli attori non professionisti -, la presa diretta, l'essere espressione delle voci della contemporaneità. Il film non viene accolto subito in modo entusiastico, ma dichiara la possibilità di essere autonoma e libera di esprimersi senza condizionamenti.



La riflessione sul tema della guerra e sulle sue conseguenze prosegue negli anni successivi con due film di forte impatto: "Paisà" (1946), film che narra in sei episodi l’avanzata delle truppe alleate nella Penisola durante la seconda guerra mondiale, e "Germania Anno Zero" (1947), un’amara e lucida visione di un paese sconfitto nel dopoguerra. Rossellini s’interroga su sentimenti e ruoli ed è così che incomincia una seconda fase della sua produzione, legata fortemente alla figura femminile, la donna però non come oggetto sessuale, bensì persona portatrice di alti valori. Negli stessi anni inizia il legame sentimentale e artistico con Ingrid Bergman: la star americana è la protagonista di "Stromboli, Terra di Dio" (1949).



La produzione di "Francesco, Giullare di Dio" (1950) rappresenta questo bisogno di Rossellini di confrontarsi con il sentimento religioso e con il senso della grazia divina.



Con Ingrid Bergman girerà diversi film tra cui "Europa 51" (1952) e "Giovanna d’Arco al rogo" (1954).



Un periodo di crisi lo porta a viaggiare in India: il fascino del subcontinente asiatico si traduce in "India, MatriBuhmi" (1958), una via di mezzo tra il documentario e la finzione.
Gli anni ’60 sono caratterizzati da film meno rilevanti da un punto di vista dell’innovazione stilistica, anche se formalmente impeccabili come "Il generale Della Rovere" (1959), o "Era notte a Roma" (1960).



Questi stessi anni vedono Rossellini impegnato con un nuovo mezzo, la televisione, di cui egli intuisce tutte le potenzialità, anche negative. Il suo impegno è ovviamente per un uso positivo, la tv davvero come servizio pubblico: Rossellini vede la televisione e la sua capacità di essere popolare come lo strumento principe per liberare le persone dall’ignoranza, per metterle in guardia dalle dittature, per espandere il concetto di libertà. Produce una serie di fiction a tema, riguardanti l'evoluzione dell'uomo o la biografia di personaggi illustri: "L’età del ferro" (1964), documentario televisivo in 5 episodi, "La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza" (1967), documentario televisivo in 12 episodi, "Socrate" (1970), "Pascal" (1971). L’intento pedagogico è notevole, non altrettanto la riuscita estetica.

sabato 7 luglio 2007

Luchino Visconti






Il suo nome si collega ad un capolavoro: "Il Gattopardo", 1963. Una di quelle pellicole entrate nella storia del nostro cinema: la bellezza di una giovanissima Claudia Cardinale accanto alla carismatica presenza del Principe Don Fabrizio di Salina, alias Burt Lancaster.


Si avvicina al cinema nel 1936, come aiuto di Jean Renoir, cineasta francese. La sua opera prima risale al 1943 e s'intitola "Ossessione": uno specchio della realtà nazionale di allora, commisto a spunti culturali diversi, da quelli francesi a quelli nordamericani.


Cinque anni dopo, ispirato dal capolavoro verghiano I Malavoglia, porta sullo schermo "La terra trema"; dove, con toni epici e lirici di profonda intensità, offre uno struggente ritratto sociale. Da allora si susseguono pellicole quali "Bellissima", 1952, "Senso" del 1954, "Le notti bianche", 1957 e poi il famoso "Rocco e i suoi fratelli", del 1960. Vibrante storia di una vedova e i suoi cinque figli: una famiglia di cui narra la lenta, tragica disgregazione, cominciata per l'amore di una stessa ragazza. Un capolavoro ricco di richiami letterari, da Mann a Dostoevskij, nell'eterna lotta dualistica tra bene e male. Una pellicola dai forti sentimenti e dalle scene dure, sulla quale piomba la scure della censura: nell'episodio dello stupro di Nadia.



Col passare degli anni, il suo gusto per il preziosismo e la rifinitura aumenta. Eccolo dirigere l'apocalittico "La caduta degli Dei", 1969, l'indimenticabile e tormentato "Morte a Venezia" 1971, fino al drammatico "Ludwig".Uno dei grandi meriti di Visconti è quello di aver sprovincializzato, con la sua visione cosmopolita, le consuetudini sceniche italiane. Con lui il regista non solo dirige, ma ricrea e interpreta lo spettacolo: che sia teatrale o cinematografico.Non lasciò mai il teatro.




Dal 1946 al 1960 allestì diverse performance tratte dalle opere di Cocteau, Sartre, Cechov, Goldoni e tanti altri, quasi sempre con la compagnia Morelli-Stoppa.

Nel 1954 esordisce come regista di teatro lirico in La vestale di Spontini. È stato considerato a lungo come l'antesignano di una cultura nuova, d'ampio respiro, nazional popolare. Si rivela come un protagonista dello spettacolo, amante del particolare, raffinato e coinvolgente, affascinato dai contrari e dalle contraddizioni.

Cesare Zavattini



Soggettista, sceneggiatore e scrittore. Notato per la sua bravura , per il bello scrivere e per la sagacia delle sue osservazioni, sviluppò col tempo una brillante carriera cominciando a collaborare a numerose riviste e arrivando addirittura a dirigere per Rizzoli tutti i periodici dell'editore. In particolare, sempre negli anni '30, prende in mano il periodico rizzoliano "Cinema illustrazione", molto importante per capire la successiva evoluzione dello scrittore, fortemente attratto appunto dal cinema e deciso e mettere in pratica le sue attitudini di sceneggiatore, in quel periodo ancora sopite.


A fianco dell'intensa attività di giornalista, non bisogna dimenticare l'eccezionale capacità di Zavattini come scrittore, a cui si devono anche libri ricchi di fantasia e di un surreale umorismo, opere che lo imposero all'attenzione della critica e del pubblico, come uno dei più originali umoristi italiani di quegli anni.


Nel cinema invece cominciò a lavorare come soggettista e sceneggiatore, nel 1935, esordendo con "Darò un milione" (M. Camerini) e proseguendo con altri film di minor spessore.

In questo periodo, Zavattini può dare spessore concreto alla sua vera passione, quella dello sceneggiatore grazie al contatto con registi straordinari (ad esempio con Alessandro Blasetti, con cui nel 1942 collabora al film "Quattro passi tra le nuvole").


Ma su tutti questi incontri spicca il geniale Vittorio De Sica. Con lui, Zavattini potè esprimere al meglio e soprattutto in autonomia le sue capacità inventive, che troveranno la loro più partecipata espressione nei film passati alla storia come "neorealisti". I prodromi dello stile neorelista si possono scorgere, oltre che nei film dello stesso Blasetti, già nel desichiano "I bambini ci guardano", del 1943. In seguito sarà la volta di capolavori passati alla storia del cinema come "Sciuscià", "Ladri di biciclette", "Miracolo a Milano" e "Umberto D". L'incontro con Vittorio De Sica, insomma, è il primo capitolo di un'amicizia e di un sodalizio artistico che li vedrà protagonisti della stagione d'oro del neorealismo (in pratica, tutti gli anni '50), e che condizionerà tutta la successiva attività cinematografica dei due autori.




Accanto alla vena più propriamente "neorealistica" della sua opera è sempre stata presente tuttavia anche una vena che si potrebbe definire "surrealista", caratteristica delle sue prime prove di scrittore ma che ha anche punteggiato la sua intera carriera di sceneggiatore (anche se con risultati alterni). Questo lo si nota molto bene sia in "Miracolo a Milano" (1951), o ne "Il giudizio universale" (1961), ambedue diretti dall'inseparabile Vittorio De Sica.

Tra le altre sue opere di rilievo, vanno almeno ricordate "E' primavera" (1949, R. Castellani), "Bellissima" (1951, L. Visconti), "Prima comunione" (1950, A. Blasetti), "Buongiorno, elefante!" (1952, G. Franciolini) e "Il tetto" (1956, V. De Sica), che può essere considerato il film che inizia il periodo involutivo della poetica zavattiniana e segna la crisi del neorealismo.

Zavattini ha comunque lavorato durante la sua lunga e luminosa carriera anche con altri grandi registi del cinema italiano e internazionale. Ne citiamo alcuni: Michelangelo Antonioni, Jacques Becker, Mauro Bolognini, Mario Camerini, Renè Clement, Damiano Damiani, Giuseppe De Santis, Luciano Emmer, Federico Fellini, Pietro Germi, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Mario Monicelli, George Wilhelm Pabst, Elio Petri, Gianni Puccini, Dino Risi, Nelo Risi, Roberto Rossellini, Franco Rossi, Mario Soldati, Luigi Zampa.

Rispetto ai limiti concessi dalla pur necessaria costruzione spettacolare del film, Zavattini cercherà di andare oltre a queste restrizioni con una serie di film-inchiesta realizzati da diversi registi su temi appositamente scelti: "Amore in città" (1953) in cui volle giungere al diretto contatto con la realtà nel suo farsi nell'episodio "Storia di Caterina" (F. Maselli); "Siamo donne" (1953), "Le italiane e l'amore" (1961), "I misteri di Roma" (1963), in cui portò alle estreme conseguenze la sua poetica del pedinamento della realtà.

Vittorio De Sica


Ironico e realista, divertente e amaro è fra i cineasti italiani più grandi del ventesimo secolo.

Prima di entrare nella storia del cinema cresce a Napoli, in una famiglia povera. Comincia come garzone per portare qualche soldo a casa. Ma dietro quegli occhi espressivi si nasconde un talento attoriale notevole. E a ventidue anni arriva il suo debutto a teatro, nella Compagnia della Pavlova: anche se già da qualche anno si cimenta in prove d'attore.


Nel 1933 con sua moglie Giuditta Rissone, attrice comica e maliziosa, e Sergio Tofano, fonda una sua Compagnia teatrale.

Si specializzano in un repertorio brillante ma mettono in scena pièce come "Il matrimonio di Figaro" di Beumarchais e, per la regia di Luchino Visconti "I giorni della nostra vita" di William Saroyan.



Già dal 1926 si affaccia al cinema, affermandosi nelle parti del conquistatore, elegante e galante, di commedie piccolo borghesi. Eccolo in "Gli uomini che mascalzoni!" del 1932 e "Grandi Magazzini" del 1939.

La sua regia di commedie rosa e romantiche risulta sentimentale e garbata, mai sdolcinata: "Rose Scarlatte", 1940, "Teresa Venerdì" del 1941 e "Un garibaldino al convento", 1942.

Importante per la sua maturazione artistica è l'incontro con lo sceneggiatore Cesare Zavattini: soprattutto nelle dure e intense produzioni del dopoguerra. Una serie di capolavori, fra tutti il commovente "Sciuscià" del 1946, spietato ritratto sulla condizione dei bambini abbandonati e "Ladri di biciclette", di due anni dopo. Descrizione sensibile e cruda della realtà dei disoccupati, grazie al quale conquista un Oscar speciale, non essendo ancora in vigore quello per il Migliore film straniero.



Ma tra i titoli più intensi da non dimenticare "Miracolo a Milano" del 1951 e "Umberto D." dell'anno successivo: la storia di un pensionato, da molti considerato il suo capolavoro. Sono pellicole di rara espressività emotiva e denuncia sociale.



Di eguale resa narrativa e successo di pubblico "L'Oro di Napoli" del 1954 e il capolavoro, che vede protagonista una straordinaria Sophia Loren, "La Ciociara", del 1960. Ma il lungo elenco dei successi prosegue con "Pane amore e fantasia" del 1953, "Matrimonio all'italiana" del 1964, "Il giardino dei Finzi-Contini", con il quale si aggiudica un altro Oscar nel 1971 e le ultime fatiche come "Lo chiameremo Andrea" (1971) e "Il viaggio" del 1974.